Parte sesta.

Capitolo 29

 

Metamorfosi 29 a.C. - 27 a.C.

 

Quando i tre figli viventi di Cleopatra s’imbarcarono per Roma sotto la tutela del liberto Caio Giulio Admeto, salparono da soli; come il divo Giulio quando aveva lasciato l’Egitto, Ottaviano decise che avrebbe potuto anche mettere in ordine l’Asia siriana e l’Anatolia prima di tornare a Roma. Una quantità stipulata dell’oro che aveva inviato al Tesoro sarebbe stata venduta per l’acquisto di argento con cui coniare i denarii e i sesterzi; né troppo ingente né troppo scarsa. Dopo tanti mesi di depressione, l’ultima cosa che desiderava Ottaviano era l’inflazione.

 

«Un’attività logorante, mia dolcissima ragazza, eppure sento che approverai la mia logica; la tua è l’unica rivale. Stipa i tuoi desideri dove non li dimenticherai, tienili pronti per me quando tornerò a casa. Non prima di parecchi mesi, ahimè.

Se sistemerò l’Oriente a dovere, non dovrò più ritornarci per anni.

E difficile credere che la Regina delle Bestie sia morta e tumulata nella sua tomba, per ridursi a un simulacro fatto di quella che sembra carta di Pergamo incollata insieme. Simile a quei burattini che la gente ama tanto quando arrivano in città gli spettacoli viaggianti. Ho visto delle mummie a Menfi, tutte bendate. I sacerdoti non erano contenti quando ho ordinato di svolgere le bende, ma hanno obbedito perché i morti non appartenevano alla casta più elevata. Solo un facoltoso mercante, sua moglie e il loro gatto. Non riesco a decidere se siano i muscoli a deteriorarsi, o il grasso a sciogliersi. Una delle due, facendo insaccare il volto, come è accaduto ad Attico. Si vede che sono le spoglie di un essere umano, e si possono fare ipotesi sul suo carattere, bellezza etcetera. Ho intenzione di portare alcune di queste mummie a Roma per esibirle su un carro nella parata del mio trionfo, assieme a qualche sacerdote sicché il popolo possa assistere a tutti gli stadi della macabra procedura. La Regina delle Bestie è la benvenuta a subire questo destino, ma il pensiero di Antonio mi consuma. Indubbiamente è l’idea di Marco Antonio mummificato ad aver esercitato tanto fascino su chi di noi si trovava in Egitto. A sentire Proculeio, Erodoto ha descritto l’attività nel suo trattato, ma siccome scriveva in greco, io non l’ho mai letto di persona: non sono cose da sillabo di uno scolaro.

Ho lasciato Cornelio Gallo ad amministrare l Egitto in qualità di praefectus. Ne è così compiaciuto che il poeta in lui è svanito, almeno temporaneamente. Non riesce a parlare d’altro che di spedizioni che intende intraprendere, a sud nella Nubia e più oltre sino a Meroë, a ovest nel deserto interno. È anche convinto che l’Africa sia un’isola immensa, e ha intenzione di circumnavigarla con navi egiziane progettate per raggiungere l’India. Non mi preoccupano questi vertiginosi tentativi di esplorazione, se serviranno a tenerlo occupato. Molto meglio quelli, di sapere che passa le sue giornate a setacciare Menfi in cerca del tesoro sepolto. Gli affari del paese sono stati seguiti adeguatamente da una squadra di ufficiali scelti da me in persona.

E così arriviamo a te con i figli giovanissimi di Cleopatra, uno spaventoso trio di Antonii in miniatura con un pizzico di Tolemei. Hanno bisogno di una rigida disciplina che Ottavia non sarà preparata ad ammannire, ma non sono preoccupato. Vivere qualche mese accanto a Iullo, Marcello e Tiberio li domerà.

Dopodiché, vedremo. Spero di maritare Selene con un re cliente quando sarà cresciuta, mentre i maschi rappresentano un problema più complicato. Voglio cancellare ogni ricordo della loro origine, pertanto dovrai dire a Ottavia che, da questo momento, Alessandro Elio sarà noto come Caio Antonio, e Tolomeo Filadefo come Lucio Antonio. Ciò che mi auguro è che i ragazzi tendano all’ottusità. Siccome non intendo confiscare le proprietà di Antonio in Italia, Iullo, Caio e Lucio disporranno di una rendita dignitosa. Per fortuna sono state in gran parte convertite in moneta o vendute, così non diventeranno mai ricchi sfondati e quindi una minaccia per me.

Solo tre marescialli di Antonio sono stati giustiziati. Il resto sono delle nullità, nipoti di uomini illustri morti da tempo. Li ho perdonati a condizione che mi prestino giuramento in una forma leggermente modificata. Ciò non significa che i loro nomi non saranno riportati sulla mia lista segreta. Un agente sarà assegnato a sorvegliare ciascuno di loro, come ovvio. Sono Cesare, ma non Cesare.

Quanto alla tua richiesta di poter avere qualcuno degli abiti e dei gioielli di Cleopatra, mia carissima Livia Drusilla, arriverà tutto a Roma, ma per essere esibito nel mio trionfo. Quando questo sarà terminato, tu e Ottavia potrete scegliere qualche oggetto che io acquisterò per voi, assicurando così che il tesoro non sia truffato. Non ci saranno più mani lunghe.

Stai bene. Scriverò di nuovo dalla Siria.»

 

Da Antiochia Ottaviano raggiunse Damasco, e da qui inviò il suo ambasciatore da re Fraate a Seleucia sul Tigri. L’uomo, un pretendente al trono dei Parti di nome Arsace, era restio a infilare di nuovo la testa nelle fauci del leone, ma Ottaviano fu adamantino. Siccome c’erano legioni romane da un capo all’altro della Siria, Ottaviano era sicuro che il re dei Parti non avrebbe commesso sciocchezze, compresa quella di far del male all’ambasciatore del conquistatore romano.

Così, agli inizi dell’inverno di quell’anno, quando i sogni di Cleopatra erano morti con lei, Ottaviano s’incontrò a Damasco con una dozzina di nobili parti e fissò un nuovo trattato: tutto ciò che sorgeva a est del fiume Eufrate sarebbe stato sotto il dominio dell’Impero Romano. Le truppe armate non avrebbero mai oltrepassato quell’imponente massa d’acqua azzurra opalescente.

«Abbiamo sentito dire che sei saggio, Cesare» esclamò il capo degli ambasciatori dei Parti, «e il nostro nuovo patto lo conferma.» Stavano passeggiando nei profumati giardini che rendevano celebre Damasco, una coppia incongrua; Ottaviano con una toga dai bordi purpurei; Taxiles con un frivolo gonnellino e tunichetta, una serie di anelli d’oro al collo e un cappellino tondo senza tesa, tempestato di perle di mare sui boccoli neri attorcigliati.

«La saggezza è il nostro buonsenso» disse Ottaviano, sorridendo. «Ho avuto una carriera così alterna che sarebbe fallita dozzine di volte se non fosse stato per due cose… il mio buonsenso e la mia fortuna.»

«E così giovane!» si meravigliò Taxiles. «Per ciò che ti riguarda, è soprattutto la tua giovinezza ad affascinare il mio re.» «Trentatré lo scorso settembre» disse Ottaviano con una certa superbia.

«Sarai a capo di Roma per molti decenni.» «Decisamente. Posso sperare di dire lo stesso di Fraate?» «Detto fra te e me, Cesare, no. Dopo l’invasione della Siria da parte di Pacoro, la corte è in subbuglio. Prevedo che ci saranno molti re di Partia prima che il tuo regno abbia fine.» «E aderiranno a questo trattato?» «Sì, categoricamente. Li esonera dal trattare con i pretendenti.»

L’Armenia era degradata sin dalla guerra di Azio; Ottaviano cominciò il debilitante viaggio sull’Eufrate verso Artaxata, seguito da quindici legioni in quella che, ad alcuni soldati, parve una marcia destinata a ripetersi per sempre. Ma quella fu l’ultima volta.

«Ho affidato la guida dell’Armenia al re dei Parti» disse Ottaviano ad Artavasde di Media, «a condizione che se ne resti sulla sua sponda dell’Eufrate. La tua parte di mondo è indistinta perché si trova a nord della sorgente dell’Eufrate, ma il mio trattato fissa il confine da queste parti, come una linea fra la Colchide sul Ponto Eusino e il Lago Matiene. Il che lascia Carana e i territori vicini al Monte Ararat a Roma. Ho intenzione di restituirti tua figlia Iotape, re dei Medi, perché dovrebbe sposare un figlio del re dei Parti. Il tuo dovere è quello di mantenere la pace fra l’Armenia e la Media.»

«Ed è tutto sistemato» disse Ottaviano a Proculeio, «senza morti né mutilazioni.» «Non eri tenuto ad andare in Armenia di persona, Cesare.» «È vero, ma volevo vedere con i miei occhi la conformazione del territorio. Negli anni a venire, quando siederò a Roma, potrebbe tornarmi utile avere conoscenze di prima mano di tutte le terre d’Oriente. Altrimenti qualche nuovo militare in cerca di gloria potrebbe raggirarmi.» «Non lo farà mai nessuno, Cesare. Come intendi comportarti con tutti quei reclienti che si sono schierati con Cleopatra?» «Non pretenderò denari da loro, questo è sicuro. Se Antonio non avesse cercato di tassarli con denari che non possedevano, le cose sarebbero potute andare in maniera molto differente. Le disposizioni di Antonio in sé sono eccellenti, e non vedo la necessità di rovesciarle solo per sottolineare il mio potere.» «Cesare è un enigma» disse Statilio Tauro a Proculeio.

«Perché, Tito?» «Non si comporta da conquistatore.» «Non credo che lui si ritenga un conquistatore. Sta semplicemente mettendo insieme i pezzi di un mondo che possa consegnare al Senato e al popolo di Roma finito, completo sotto tutti gli aspetti.» «Ali!» grugnì Tauro. «Il Senato e il popolo di Roma, un corno! Non ha alcuna intenzione di lasciare le redini. No, quello che mi lascia perplesso, vecchio mio, è come avrà intenzione di governare, perché dovrà pur governare.»

Era al suo quinto consolato quando si accampò nel Campo Marzio accompagnato da due delle sue legioni preferite, la Ventesima e la Venticinquesima. Era obbligato a restarci finché non avesse celebrato i suoi trionfi, tre in tutto: per la conquista dell’Illiria, per la vittoria di Azio e per la guerra in Egitto.

Anche se nessuno dei tre poteva sperare di rivaleggiare con alcuni trionfi del passato, sbaragliarono di gran lunga i predecessori in quanto a propaganda. Fece rappresentare Antonio da zoticoni cascanti di vecchi gladiatori, e Cleopatra da donnoni germanici che tenevano il loro Antonio al guinzaglio e con il collare per cani.

«Meraviglioso, Cesare!» disse Livia Drusilla quando fu terminato il trionfo per l’Egitto e il marito tornò a casa dal sontuoso banchetto al tempio di Giove Ottimo Massimo.

«Sì, l’ho pensato anch’io» disse con aria compiaciuta.

«Certo, alcuni di noi si ricordavano Cleopatra dai tempi in cui era stata a Roma, ed erano sbalorditi da quanto fosse cresciuta.» «Sì, ha risucchiato la forza di Antonio e si è elefantizzata.» «Che verbo interessante!»

Poi arrivò il lavoro, che era ciò che Ottaviano amava di più. Era partito dall’Egitto in possesso di settanta legioni, una quantità astronomica che soltanto l’oro del tesoro dei Tolemei gli permise di far ritirare dignitosamente. Dopo attente considerazioni aveva deciso che, in futuro, Roma non avrebbe avuto bisogno di più di ventisei legioni; nessuna avrebbe dovuto rimanere stanziata in Italia o in Gallia Cisalpina, il che significava che nessun senatore ambizioso intenzionato a soppiantarlo avrebbe avuto delle truppe a portata di mano. E finalmente queste ventisei legioni avrebbero formato un esercito di stanza che avrebbe prestato servizio per sedici anni sotto il vessillo delle Aquile e per altri quattro sotto le insegne. Ciascuna delle quarantaquattro legioni che aveva scaricato furono sciolte e disseminate da un capo all’altro del Mare Nostrum, su terreni confiscati alle città che avevano spalleggiato Antonio. Quei veterani non avrebbero mai vissuto in Italia.

Quanto a Roma, avviò le trasformazioni che Ottaviano aveva promesso solennemente: dal mattone al marmo. Tutti i templi furono ridipinti nei loro giusti colori, piazze e giardini furono abbelliti, e il bottino d’Oriente fu redistribuito per decorare templi, fori, circhi, piazze del mercato. Meravigliose statue e dipinti, favolosi arredi egiziani. Un milione di pergamene furono poste in una biblioteca pubblica.

Naturalmente il Senato propose a Ottaviano onori di ogni genere; lui ne accettò pochissimi, e non apprezzò quando il Palazzo insistette per chiamarlo dux… condottiero. Brame segrete ne aveva, ma non erano di natura plateale; l’ultima cosa che desiderava era di essere giudicato un mero despota. Così visse come si addiceva a un senatore del suo rango, ma in maniera mai appariscente. Sapeva di non poter continuare a governare senza la connivenza del Senato, ma sapeva altrettanto per certo che, in un modo o nell’altro, avrebbe dovuto attingere al potere di quell’assemblea senza dare l’impressione di aver tratto il benché minimo vantaggio.

Gli tornò utile controllare il fisco e l’esercito, due poteri che non aveva intenzione di deporre, ma che non gli conferivano uno straccio d’inviolabilità personale. Per questo, gli occorrevano i poteri di tribuno della plebe, non per un anno o un decennio, ma per tutta la vita. A tale scopo doveva lavorare, accumulare potere a poco a poco finché, in ultima analisi, non avesse avuto quello più grande di tutti, il potere di veto. Lui, il meno intonato di tutti, avrebbe dovuto ammannire ai senatori un canto di sirene tanto seducente da farli restare per sempre alla fonda.

Compiuti diciotto anni, Marcella sposò Marco Agrippa, console per la seconda volta; non si era disinnamorata del suo eroe imbronciato e taciturno, ed era entrata in quell’unione convinta che lo avrebbe sedotto.

La nidiata di Ottavia parve non ridursi mai di dimensioni, nonostante la partenza di Marcella e Marcello, i suoi due figli maggiori. Aveva Iullo, Tiberio e Marcia, tutti quattordicenni; Cellina, Selene, il gemello di Selene con il nuovo nome di Caio Antonio, e Druso, tutti di dodici anni; Antonio e Giulia, undici; Tonilla, nove; Lucio Antonio con il suo nuovo nome, sette; e Vipsania, sei. Dodici ragazzi in tutto.

«Mi dispiace che Marcello ci lasci» disse Ottavia a Caio Fonteio, «ma ha una casa tutta sua e dovrebbe andare ad abitarci. Il prossimo anno sarà contubernalis nello stato maggiore di Agrippa.» «Che cosa farà Vipsania, adesso che Agrippa si sposa?» «Resterà con me… una saggia decisione, credo. Marcella non vuole un ricordo costante dei suoi ultimi anni nell’ala dei bambini, e Vipsania lo sarebbe. Inoltre, Tiberio ne rimarrebbe afflitto.» «Come se la stanno cavando i figli di Cleopatra?» domandò Fonteio.

«Molto meglio!» «Allora i cosiddetti Caio e Lucio Antonio si sono finalmente stancati di prendere botte da Tiberio, Iullo e Druso?» «Da quando mi sono imposta di chiudere un occhio, sì. È stato un ottimo consiglio, Fonteio, per quanto all’epoca non lo gradissi molto. Adesso tutto ciò che devo fare è convincere Caio Antonio a non mangiare eccessivamente… è un golosone!» «Come suo padre, per molti versi.» Fonteio appoggiò la schiena a una colonna dei nuovi, squisiti giardini che Livia Drusilla aveva creato intorno ai vecchi stagni delle carpe di Ortensio, e incrociò le braccia con aria piuttosto difensiva. Adesso che Marco Antonio era morto e la sua tomba ad Alessandria sigillata per sempre, aveva deciso di tentare la fortuna con Ottavia, che aveva avuto parecchi anni a disposizione per piangere l’ultimo marito. Con i suoi quarant’anni, aveva probabilmente passato l’età feconda, e non ci sarebbero stati nuovi arrivi nell’ala dei bambini. A meno che non fossero dei nipoti. Perché non tentare? Erano stati così buoni amici che lui aveva smesso di pensare che lei lo avrebbe rifiutato per il bene del ricordo di Antonio.

Che bell’uomo! stava pensando lei mentre lo guardava, intuendo, con la sua spiccata sensibilità, che aveva qualcosa in mente.

«Ottavia…» disse lui, poi si interruppe. «Sì?» lo incalzò lei, curiosa. «Dimmi!» «Dovresti sapere quanto ti amo. Mi sposeresti?»

Per lo sconcerto le pupille di lei si dilatarono, il corpo si tese. Sospirò, scosse la testa. «Ti ringrazio dell’offerta, Caio Fonteio, e soprattutto del tuo amore. Ma non posso.» «Non mi ami?» «Sì, ti amo. Quel sentimento si è insinuato in me di anno in anno, e tu sei stato molto paziente. Ma non posso sposare te, né nessun altro.» «L’imperatore Cesare» disse lui, a labbra strette.

«Sì, l’imperatore Cesare. Mi ha indicato a tutto il mondo come la quintessenza della moglie devota, della madre affettuosa. E ricordo bene come ha reagito quando nostra madre è caduta in disgrazia! Se io mi risposassi, Roma resterebbe delusa di me.» «Allora possiamo essere amanti?» Ci rifletté, la bocca generosa curvata in un sorriso. «Glielo domanderò, Caio, ma la sua risposta sarà sicuramente no.» «Domandaglielo lo stesso!» Andò a sedersi sul bordo dello stagno, i begli occhi luminosi, la bocca che le sorrideva. «Almeno avrò una risposta, Ottavia, anche se è no. Domandaglielo… subito!»

Suo fratello stava lavorando allo scrittoio… quando non lo faceva? Alzò lo sguardo, le sopracciglia inarcate.

«Posso parlarti in privato, Cesare?» «Certo.» Un cenno della mano fece uscire i commessi a passi affrettati. «Allora?» «Ho ricevuto una proposta di matrimonio.» A quelle parole, si disegnò un ruga di dispiacere sulla sua fronte. «Da chi?» «Caio Fonteio.» «Ah!» Congiunse le dita. «Un uomo perbene, uno dei miei partigiani più fidati. E tu vorresti sposarlo?» «Sì, ma solo con il tuo consenso, fratello mio.» «Non posso acconsentire.» «Perché?» «Oh, avanti, Ottavia, lo sai perché! Quel matrimonio non innalzerebbe troppo lui, ma abbasserebbe troppo te.» Le spalle della donna s’infossarono; si lasciò cadere su una sedia con la testa ciondoloni. «Sì, me ne rendo conto. Ma è molto difficile, Piccolo Caio.» Quell’appellativo infantile gli fece venire le lacrime agli occhi; le scacciò con una strizzata d’occhi. «In che senso, difficile?» domandò.

«Mi piacerebbe tanto sposarmi. Ti ho dedicato tanti anni della mia vita, Cesare, senza lamentarmi o attendere una ricompensa. Ti ho permesso di innalzarmi a una condizione paritaria alle Vestali. Ma non sono ancora decrepita, e sento di meritare una ricompensa.» Alzò la testa. «Io non sono te, Cesare. Non desidero stare al di sopra di tutti gli altri. Voglio sentirmi cinta dalle braccia di un uomo di nuovo. Voglio essere desiderata e necessaria in una maniera più intima che non dai bambini.» «Non è possibile» disse lui a denti stretti.

«E se diventassimo amanti, allora? Del tutto in sordina e in segreto, nella discrezione più assoluta. Concedimi almeno questo!»

«Mi piacerebbe, Ottavia, ma viviamo in una vasca trasparente. I servi spettegolano, i miei agenti spettegolano. Non si può fare.» «Sì, si può! I pettegolezzi su di noi vanno avanti da sempre, le tue amanti, i miei amanti, Roma mormora! Credi che Roma non abbia già tacciato Fonteio di essere mio amante, con tutto il tempo che passiamo insieme? Che cosa cambierebbe, se non che un evento fittizio diventerebbe reale? È vecchio e canuto, Cesare, a malapena degno del pettegolio delle lingue lunghe.» Lui l’aveva ascoltata con aria imperscrutabile, le palpebre abbassate; ma adesso le aveva sollevate e sorrideva con il sorriso più dolce del Piccolo Caio. «D’accordo, prenditi come amante Fonteio. Ma nessun altro, e non rendere mai pubblica la cosa con uno sguardo, un gesto o una parola. La prospettiva non mi piace, ma tu non sei d’indole promiscua.» Batté le mani sulle ginocchia. «Recluterò Livia Drusilla. Il suo aiuto sarà inestimabile.» Ottavia indietreggiò. «Cesare, no! Non approverebbe!» «Invece sì. Livia Drusilla non si dimentica mai che c’è una madre nella nostra famiglia.»

L’ultima parte di quell’anno fu carica di crisi che né Ottaviano né Agrippa avevano previsto. Come sempre, alla radice di tutto c’era un’illustre famiglia, questa volta i Licinii Crassi. Era una casata vecchia come la Repubblica, e il suo attuale capoclan tentò di arrivare al potere con tale scaltrezza da non vedere dove potesse fallire. Ma con quell’arrampicatore, con quell’impostore, Ottaviano trattò in maniera brillante, in maniera istituzionale, e attraverso il Senato che Marco Licinio ipotizzava l’avrebbe sostenuto. Non fu così.

La sorella di Crasso, Licinia, era la moglie di Cornelio Gallo, il che coinvolgeva quest’ultimo negli eventi. Mentre era governatore d’Egitto, aveva fatto grandi conquiste come esploratore; il successo gli diede alla testa a tal punto da far incidere le sue prodezze sulle piramidi, sui templi di Iside e di Hathor, e su vari monumenti di Alessandria. Aveva persino eretto ovunque delle gigantesche effigi di sé, azione proibita per tutti i romani, le cui statue potevano essere solo a grandezza naturale. Lo stesso Ottaviano aveva seguito tutto ciò con attenzione; tanto da non rimanere sconcertato per le vicende del suo amico e partigiano Gallo. Convocato a Roma per rispondere della sua megalomania, Cornelio Gallo si suicidò con la moglie a metà del processo per tradimento di fronte al Senato.

Da quel momento in poi Ottaviano, che non era mai stato tipo da ignorare certe lezioni, mandò soltanto uomini del tutto ordinari e di natali mediocri a governare l’Egitto, e si accertò che gli ex consoli alla guida delle province fossero destinati a regioni sgombre da grandi armate. Le armate furono ereditate dagli ex pretori; siccome volevano diventare consoli, erano più inclini a comportarsi correttamente. I trionfi sarebbero divenuti prerogativa della famiglia di Ottaviano, e di nessun altro.

«Astuto» disse Mecenate. «Quelle pecore dei tuoi senatori sono andati d’accordo come agnellini… bee, bee, bee.» «Non si può permettere che la nuova Roma faccia crescere degli uomini così ambiziosi da mostrare la loro vera natura ai cavalieri, figuriamoci alla gente comune. Facciamogli conquistare gli allori militari con tutti i mezzi, ma al servizio del Senato e del popolo di Roma, e non per favorire le loro famiglie» disse Ottaviano. «Ho capito come castrare la nobiltà, vecchia o nuova non fa differenza. Possono vivere grassi come vogliono, ma non conseguiranno mai pubblica fama. Gli concederò il pancione, ma mai la gloria.» «Hai bisogno di un altro nome oltre a Cesare» disse Mecenate, gli occhi fissi su un bellissimo busto del divo Giulio saccheggiato dal palazzo di Cleopatra. «Mi sono accorto che disdegni dux o princeps. Imperatore meglio lasciar perdere, e divi filius non è più necessario. Ma che nome?» «Romolo» gridò entusiasta Ottaviano.

«Cesare Romolo!» «Impossibile!» strepitò Mecenate.

«Romolo mi piace!» «Può piacerti finché vuoi, Cesare, ma è il nome del fondatore di Roma… e il suo primo re.» «Io voglio farmi chiamare Cesare Romolo!» Una presa di posizione che Ottaviano rifiutò di abbandonare, nonostante la tenace opposizione di Mecenate e Livia Drusilla. Infine andarono da Marco Agrippa, presente a Roma in quei giorni perché era console nell’anno vecchio e sarebbe tornato console in quello nuovo.

«Marco, convincilo tu che non può chiamarsi Romolo!» «Ci proverò» disse Agrippa, «ma non prometto niente.» «Non capisco perché facciano tante storie» disse Ottavia, no corrucciato, quando lo avvicinò. «Mi occorre un nome che si addica al mio status, e non me ne viene in mente uno minimamente più adatto di Romolo.» «Cambieresti idea se qualcuno ti trovasse un nome migliore?» «Sì, certo! Mi rendo conto benissimo delle regali implicazioni di Romolo!» «Trovagli un nome migliore» disse Agrippa a Mecenate. Fu il poeta Virgilio a pensarci.

«E se fosse» domandò Mecenate con delicatezza, «Augusto?» Ottaviano batté le palpebre. «Augusto?» «Sì, Augusto. Significa il sommo dei sommi, il più glorioso dei gloriosi, il più grande dei grandi. E non è mai stato usato come cognomen… da nessuno.» «Augusto.» Ottaviano se lo fece passare sulla lingua, assaporandolo.

«Augusto… Sì, mi piace. Ottimo, che sia Augusto.»

Il tredicesimo giorno di gennaio, quando Ottaviano compì trentacinque anni e fu console per la settima volta, convocò il Senato. «È giunto il momento che io rinunci a tutti i miei poteri» disse. «I pericoli sono cessati. Marco Antonio, quel povero gonzo, è morto da due anni e mezzo e con lui la Regina delle Bestie, che l’ha vilmente corrotto. Da allora sono finite anche quelle scarse occasioni di panico e terrore dell’epoca, semplici quisquilie a confronto della potenza e gloria di Roma. Io sono stato il fedele guardiano di Roma, il suo difensore indiscusso. E così adesso, in questo giorno, padri coscritti, vi annuncio che sto per rinunciare a tutte le mie province, le isole con il loro grano, la Spagna, le Gallie, la Macedonia e la Grecia, la Provincia d’Asia, l’Africa, la Cirenaica, la Bitinia e la Siria. Le consegno al Senato e al popolo di Roma. Tutto ciò che desidero è mantenere la mia dignitas, il che comporta il mio status di consulare, di vostro princeps senatus, e il mio grado personale di tribuno della plebe onorario.» Il Palazzo proruppe in una spontanea sollevazione. «No, no!» prese a tuonare nelle orecchie di Ottaviano da tutte le parti, un rimbombo intermittente.

«No, grande Cesare, no!» giunse la voce di Planco, la più alta di tutte. «Mantieni le tue fidate mani su Roma, ti supplichiamo!» «Sì, sì, sì!» da ogni direzione.

La farsa proseguì per qualche ora, con Ottaviano che indietreggiava e cercava di protestare di non essere più necessario, e il Palazzo che insisteva di sì. Infine Planco, risoluto voltagabbana, aggiornò la questione irrisolta alla successiva seduta del Palazzo prevista tre giorni più tardi. Il sedicesimo giorno di gennaio, il Palazzo, nella persona di Lucio Munazio Planco, si rivolse al suo astro più luminoso.

«Cesare, la tua mano sarà sempre necessaria» disse Planco, con tutta la sua mellifluità. «E pertanto t’imploriamo di mantenere il tuo imperium maius su tutte le province di Roma, e di proseguire come console superiore dell’Urbe per l’immediato futuro. La tua scrupolosa attenzione al benessere della Repubblica non ci è sfuggita, e siamo lieti che sotto la tua tutela la Repubblica sia stata arricchita di nuovo vigore, e ringiovanita per sempre.» Continuò così per un’altra ora, giungendo alla chiosa finale con una voce fragorosa che riecheggiò per tutta la camera. «Come segno particolare del ringraziamento di quest’assemblea, desideriamo conferirti il nome di Cesare Augusto, e proporre una legge che impedisca a chiunque altro di usarlo in futuro! Cesare Augusto, il sommo dei sommi, il più valoroso dei valorosi! Cesare Augusto, il più grande uomo della storia della Repubblica Romana!» «Accetto.» Che altro c’era da dire?

«Cesare Augusto!» ruggì Agrippa, e lo abbracciò. Primo fra i suoi partigiani, primo fra i suoi amici. Augusto uscì dalla Curia Hostilia del divo Giulio in mezzo a un’orda di senatori, ma sottobraccio ad Agrippa. Nell’atrio abbracciò la moglie e la sorella, quindi raggiunse ad ampie falcate il bordo delle scale e alzò le mani rivolto alla folla festante.

C’è già stato un Romolo, pensò. Io sono Augusto, e unico.

 

Fine